E’ un momento splendente per un certo cinema americano, inteso come quello di matrice USA e hollywoodiano; si stanno rivivendo i fasti della new hollywood degli anni ’70, dove menti e regie innovative e coraggiose avevano rovesciato la tradizione stantia e portato milioni di incassi? Non proprio, dato che ci riferiamo qui a flop colossali e quasi preventivati, ma la notizia è già qui, cioè che alcuni produttori (sia indipendenti che mainstream) abbiano deciso, nel 2014 (e chissà nel 2015) di lanciarsi in progetti fallimentari dal punto di vista economico, ma entusiasmanti (non sempre, ma a volte) da quello artistico. Se abbiamo già parlato in precedenza di Inherent Vice e non certo in maniera positiva, veniamo (il plurale maiestatico puzza di professionalità, me ne scuso, anzi, ce ne scusiamo) dalla visione di Foxcatcher di Bennett Miller e di Blackhat di Michael Mann. Se il primo titolo è certamente più tradizionale, sia nella messa in scena austera che nel suo riferirsi a un’opera letteraria (Intermezzo: curioso che abbia vinto a Cannes vent’anni dopo Pulp Fiction, segno che in Costa Azzurra premino ancora gli americani, benché lo sguardo sia in questo caso molto più classico che rivoluzionario, segni dei tempi, forse; ma se Cannes avesse ancora voglia e l’idea di anticipare il vento cinematografico futuro, forse avrebbe dovuto premiare altro, se ci fosse; tuttavia, è ancora autre chose rispetto a una Venezia che snobba Birdman per il film di Roy Andersson, che è stato criticamente molto apprezzato, ma che ad esempio io ho detestato, forse perché il mio senso dell’umorismo è poco avvezzo a quello svedese, e comunque davvero non capisco chi ci ha infilato i Monty Python come riferimento, benché okay forse la sequenza con il Re e l’esercito, ma francamente…. Beh, non ho visto Birdman, non posso fare confronti) , per quanto ispirata a un fatto realmente accaduto e comunque piuttosto riadattato rispetto ad esso, il secondo è l’ennesimo grande film di Mann, anzi, qui ci troviamo di fronte, secondo chi scrive, al capolavoro del regista di Chicago. Un capolavoro di attualità, di contemporaneità totale (persino nelle date: il film si svolge nel marzo 2015, e tutto ciò che accade potrebbe svolgersi esattamente in quel momento, mentre noi spettatori siamo rinchiusi in sala, magari con una pietra al collo – ma durante la proiezione non le farete caso – ), che guarda alle infinite possibilità offerte dal digitale, dal web, e dal punto di vista tecnico da quello della cgi, uno dei protagonisti assoluti delle immagini più interessanti del film. Allo stesso tempo, Mann guarda alla sua gioventù, ai film d’azione, ai tempi d’oro del genere degli anni Ottanta, in cui la corporalità si associava alla dinamicità, in cui l’ingegnosità non si contrapponeva all’essere fighi, e non c’erano limiti, di pensiero, di azione, geografici.
Più che settantenne, Mann è da diversi anni il regista più contemporaneo degli USA, cioè quello che ha cominciato a girare in digitale in alta definizione prima di tutti (Collateral), che ha riproposto l’estetica dell’action degli 80’s (Miami Vice) prima dei vari Expendables & co. Avrei visto benissimo Mickey Rourke recitare al posto di Chris Hemsworth, e Michael Cimino dirigere quest’opera, fosse stata girata trent’anni fa. L’ho pensato negli ultimi quindici-venti minuti circa (non so quantificare precisamente la durata, il tempo non mi ha oppresso durante la visione, so solo che le due ore e venti sono scorse via che era un piacere), soprattutto durante alla sequenza d’azione finale, quella dello scontro corpo a corpo. Una scena corale che riporta il discorso a ciò a cui Mann puntava fin dall’inizio, l’esaltazione di un mondo più umano, fisico (nel senso di corpi, non di quantistico), in cui Hathaway/Hemsworth assume le fattezze di un McGyver 2.0, più cazzuto e violento, certo, ma ugualmente geniale dal punto di vista delle invenzioni e delle intuizioni. Un mondo dove, e Hathaway lo dice esplicitamente in uno dei pochi dialoghi interessanti e significativi, conta guardarsi negli occhi, contano i rapporti umani, le amicizie, gli amori, la classica e sana vendetta. E dove anche le armi utilizzate sono i cari e vecchi pugnali (e comunque, anche coi kalashnikov, è sempre corpo a corpo, magari senza protezioni particolari). I computer e dintorni, il web (che Mann mostra bene come si trattino di elementi anch’essi fisici, tangibili, dotati di un corpo), non sono cose da distruggere, alla Grillo dei vecchi tempi, anzi, bisogna sapere “semplicemente” come servirsene per arrivare all’obiettivo (alla Grillo dei tempi attuali), alla resa dei conti finale, a guardarsi finalmente in faccia, per risolverla da uomini.
A Hollywood, dunque, diversamente dagli anni ’70, si investe forse meno nella gioventù, non parliamo di registi di primo pelo qui, infatti (P. T. Anderson è considerato un giovane: figurarsi, uno che ha girato il primo lungometraggio nel 1996), bensì piuttosto di autori, registi con una visione personale, che sanno rischiare, anzi, vogliono rischiare, “fallire”, regalandoci perle sensazionali (non vada dimenticato che solo poco più di un anno fa usciva The Wolf of Wall Street, il cui straordinario successo di botteghino ha forse facilitato se non permesso questa nuova ondata produttiva così rischiosa e poco orientata al grande pubblico). Ma non tutti sono Scorsese, e per di più in questi film di sesso&pruderie ce n’è molto poco.
Conclusioni: Non ne abbiamo, ma finora è un anno cinematograficamente molto vivo e interessante, la domanda è: siamo solo all’inizio?