PRAISE FOR TEEM

TEEM is what I miss of my Land

32 kilometers of black bliss

Listening to On the Run by Pink Floyd

Smoothly cross the empty exits

Vizzolo Predabissi Paullo Gessate

Then a sudden shrinking on the way

I stop at Autogrill for a break

Unofficial random boxsets from Vasco to Lucio

I would buy them someday

and then all closes, more than a year passed

Now it’s just few garbage coming who knows where

Why these leftovers are here, who brought them?

Wish I could visit their stock

Who buys this shit, after all?

I take the way back, again on the TEEM

It’s all dark and no cars around

Playing the Prodigy Experience, full throttle

A rabbit jumps in the middle, but it’s too late

Cause I’m flooring it on the TEEM

A58 for the records,

here where nobody comes

and a 25% discounts is always offered

cos nobody would ever care.

Now they’re doing some maintenance

which is completely unnecessary

cos there is no queue on the TEEM

T.E.E.M

T.E.E.M

T.E.E.M

Neu! would love this place

In Francia alcuni giorni fa si è commemorato il primo anniversario dall’assassinio di Samuel Paty, un professore colpevole sostanzialmente di aver cercato di portare una qualche idea di ragionamento e discussione in un’aula scolastica. Senza addentrarci nella questione libertà e valori repubblicani, questo è un esempio benché violento di cancel culture, di volontà di tagliare alla radice qualsiasi possibilità di approfondimento, di analisi di una qualsiasi questione. È in atto in diversi ambiti culturali una continua erosione dei confini di ciò di cui si può parlare e discutere, in nome di un imprecisato rispetto dei sentimenti e della sensibilità di qualcun altro. Il pensiero sostituito con le emozioni, come in uno spot pubblicitario perenne.

Oggi, i colleghi di Paty non nascondono di misurare argomenti e parole con estrema attenzione mettendo in atto una esplicita autocensura mirata a salvarsi la vita (ormai l’asticella si è abbassata e si è superato il classico ‘tengo famiglia’), segno che l’atto ha colpito nel senso e che rientra nell’ampio dibattito sulla cosiddetta cancel culture, che non significa altro che annientamento del ragionamento e della complessità su basi affatto razionali ma ‘di pancia’, di gusto, perché bisogna rispettare tutti e certe parole, certi argomenti, sono fastidiosi, il che vuol dire disimparare a leggere e a parlare, imparare invece a non giudicare, non pensare, non esprimersi, perché qualcuno, da qualche parte, si offenderà e ti farà fuori, in vari modi possibili. Un meccanismo basato sulla paura di essere rimossi, da un incarico, da un’esistenza, da un posto. E Paty non può essere certo accusato di essere un agent provocateur, come molti miserabili dissero di altre vittime, da Theo Van Gogh in poi.

In un contesto di questo tipo, l’atto stesso del pensare diventa qualcosa di pericoloso per sé, sovversivo per gli altri, punibile da un qualche tipo di autorità di controllo. La complessità è bandita, o meglio bannata, chi fa la voce più grossa vince… Ma era così già a scuola, mi ricordo, io sì mi ricordo, il senso di sconfitta e frustrazione nel risultare già noiosi e prolissi dopo cinque-sei parole in croce, un sussulto di ragionamento percepito come qualcosa di offensivo, fastidioso. L’essere umano deve essere condotto al minimo grado zero, un’operazione di depensamento che C.B. avrebbe auspicato per sé, perché lui sommerso dal suo pensare costante e soffocante. Ma non si può de-pensare quando non si è mai appreso a pensare.

Screen-aging

I was kind of working the other night.

On of my multiple screens the NHL flows

lights, sounds, slipstreams of ice splinters

more or less overweight people dancing singing drinking

then a TV direction which amazed me for its timing

quick cuts, close-ups of bodies smacked on plexiglas

slammed armors – Sbam! –

I can see the director pressing, jumping on the keys

a ballet of long shots and close-ups

It’s Bowman in the Star Gate

and I am a newborn full of wonder again

Then another event, absurd and unexpected,

a – I guess – highly ranked bowling tournament

teams representing Europe and U.S.A. clashing

Players of various body features

from the young grotesque already deteriorating

to the sixty-year-old still done up and fit.

But the real pleasure is on the bleachers

which are at the level of the lane

each shot on the crowd

it’s an anthem to a contemporary Neue Sachlichkeit.

But the highlight is a big man janitor:

with the highest aplomb and savoir-faire he actions a machinery

which cleans the lane during a break.

Then he turns towards the camera, so aware and so unenthusiastic of it

static and seraphic slowly enjoys his rest after such a prestigious act.

Time to go back to the NHL

but the magic is lost, the director got tired and only long takes now

it’s time to turn off and alas to watch my life again.

my sex and the machine – due robe su Titane

Ho letto in giro molti chiedersi, o forse me lo sono solo sognato, come abbia fatto un film come Titane a vincere la palma d’oro a Cannes (presidente di giuria Spike Lee). La risposta è semplice: all’interno, se si vuole, c’è un discorso di gender, una protagonista donna che si finge uomo per evitare er gabbio ma che deve fare i conti con una gravidanza inattesa e fuori dalla realtà… Con questi presupposti, Ranma ½ dovrebbe essere esposto nelle cineteche di mezzo mondo. Non sappiamo se Julia Ducournau abbia un po’ furbescamente pensato a ciò in fase di scrittura e realizzazione del suo secondo film, non ci interessa; l’unica domanda che le porremmo sarebbe se lei sia a conoscenza della band Ultravox! e nello specifico dell’album omonimo, primo LP della band di John Foxx (doveroso e imprescindibile è il punto esclamativo nella regione sociale, marchio di fabbrica del periodo Foxx appunto). Perché lì dentro ci sono canzoni meravigliose, tra cui una dal titolo I want to be a machine e un’altra My sex. Interazioni uomo e macchina, desideri ironici ed erotici di mischiarsi con qualcosa di inumano, legato all’allora emergente tecnologia informatica… Lì il discorso era inscindibile dalla realtà vuota e soffocante della Londra di metà anni Settanta, ed era comunque qualcosa di ben lontano da una qualsiasi moda o strizzatina d’occhio al momento, alla contemporaneità. Siamo insomma ben lontani e ben prima di Titane. Perché Ducourneau non è che s’inventi qualcosa di nuovo, anche se il film è molto attuale nel ritmo vorticoso e nel trattare mille temi, alcuni solo sfiorati altri più marcati. Del tipo: perché Alexia è una pazza furiosa attratta sessualmente solo dalle auto e con costanti raptus omicidi? Come dite? Chissenefrega? Risposta… Esatta!!! Allegria! La quale appare pure tra un momento violento e uno disperato, ovviamente sotto forma sedata di ironia ammiccante, ché insomma ragazzi e ragazze, vi sto mostrando una tizia che rimane incinta di un’automobile, state un po’ tranquilli. E comunque il senso del grottesco che appare qua e là non è comune. Che poi si provi più o meno della sana intolleranza e del disagio nel guardare ogni frame, beh questo dipende soprattutto dalla sensibilità e dell’esperienza del singolo spettatore. Non stiamo comunque parlando di A Serbian Film, qui la violenza e l’estremo sono minori epperò più gratuiti. Per qualcuno infatti si tratta di semplice accumulo di provocazioni, e anche fosse non ci troviamo niente di male poiché le apprezziamo.

Dov’eravamo rimasti? Ah, sì, c’è poi tutto il rapporto padre-figlio che è poi un percorso nell’accettare se stessi soprattutto da parte di lei, del proprio ruolo, di donna e quindi anche di madre, perché la femminilità (il femminile?!) è destinata a emergere e strabordare, e non ci sono bende o tagli di capelli che tengano… Ecco, qui c’è Croneneberg, e solo Roy ha avuto il merito, che io sappia, di citare M. Butterfly, piuttosto che quel Crash menzionato da tutti e che c’entra molto poco secondo me. Poi, il padre, interpretato da Vincent Lindon, è costantemente sull’orlo del suicidio finché non trova una ragione per vivere, che è quella di proteggere e crescere qualcuno, di riconquistare finalmente il proprio ruolo di padre (che la regista parigina conosca anche 17 Re dei Litfiba e Come un Dio? Il personaggio di Lindon si definisce tale, e suo figlio è Gesù, figliol prodigo e destinato alla morte)… Attenzione, arriva il grande capo Estiqaatsi.

Ciò che ho trovato davvero interessante è l’utilizzo dei corpi, in particolare quello della protagonista Alexia, che viene usato come in una performance artistica estrema: modificato in vari modi, macchiato, marchiato, grattato, morso, mutilato, graffiato, infine distrutto e fatto a pezzi. Dubitiamo qualcuno accusi di Ducourneau di misoginia, in ogni caso. Non da meno tuttavia quello del padre, gonfiato dagli steroidi, bucato dalle iniezioni, pieno di lividi, cicatrici, bruciacchiato. Qualcuno ai vecchi tempi l’avrebbe forse definito un fumettone… Si usa ancora questo termine del cazzo? Guardate Titane, se è una merda non spetta ad altri dirvelo.

Considerazioni sparse e incomplete su…

Non mi è mai interessato nulla dei simbolismi, anzi, li rifiuto, più che altro li detesto, li trovo vetusti. Dunque non starò qui a commentare i sottotesti del titolo “Heaven’s Gate”, trattando di quello che potrebbe significare o meno, né mi dilungherò troppo sulla nota storia della sua disfatta commerciale, se non sottolineando come si sia favoleggiato sulla bancarotta che avrebbe provocato: di certo, la disfatta al botteghino fu pesante, ma non tale da rovinare irreversibilmente la United Artists, compagnia già in declino da tempo. Si può dire però senza dubbio che il film di Cimino fu la pietra tombale sull’era della cosiddetta New Hollywood, di un periodo in cui gli Autori potevano realizzare opere di grande respiro e ambizioni supportati dalle grandi case di produzione; declino già comunque sancito dal successo di Star Wars, ma questa è una questione di cui non ci si occuperà qui.

Sulle cause del flop fragoroso, beh, cercando di storicizzare un po’, fare un western per di più non convenzionale nel 1980 doveva essere considerato antidiluviano già all’epoca, di certo il pubblico andava da un’altra parte, e se vogliamo parlare di ambientazione “western”, il già citato Star Wars o Mad Max, per dire, erano andati in direzioni diverse riguardo ad ambientazione geografica e temporale. Poi i tempi, dilatati, chiaramente, ma non è che il Padrino parte II durasse molto meno. Ha contato di più il fatto che sia stato rimaneggiato (eufemismo) dai produttori e fatto circolare in versione monca e non approvata dal regista: raramente questo tipo di decisioni porta plausi critici e pubblico nelle sale (un esempio per tutti, il fiasco di qualche anno dopo di “C’era una volta in America”). Un diktat subito da Cimino e, tra gli altri, Friedkin, Peckinpah. Soprattutto a quest’ultimo ho pensato guardando H’s G. Ho pensato a quanto la battaglia finale superasse in estremizzazione e nichilismo quella del Mucchio Selvaggio (poi non sarà ‘violenza elegiaca’ come ho letto in giro, ma non parlo di questo): sono anche passati dieci anni, il tasso di violenza è aumentato, ma questa esplosione lunga ed estenuante è davvero moderna, rappresenta l’inizio di una nuova fase nella sua rappresentazione che fa di H’s G, si conceda il cliché, un film assolutamente contemporanea. Forse davvero troppo avanti per gli spettatori dell’epoca. Ma ciò che è intollerabile e respingente per il pubblico americano è che un film prodotto da connazionali critichi aspramente la propria politica e la propria Storia, specialmente se si oppone a essa una visione “comunista” (in accezione USA). In un’epoca, la nostra, in cui l’immigrazione è tornata a essere materia di scontro politico e dialettico nell’opinione pubblica, in cui il povero è sempre più povero e il ricco viceversa sempre più ricco, parlare in questi termini degli Stati Uniti e delle sue leggi violente e apertamente antidemocratiche, beh, non fa piacere alla massa yankee (c’è anche da aggiungere che, se lo vedessero i leghisti o simili in Italia, sarebbero ancor più stimolati a scendere in piazza con le armi a “fare la rivoluzione”). Non si parla qui di Nativi Americani, il cui politicamente corretto li aveva già ridotti a buoni, personaggi rassicuranti per l’assoluzione di un intero Paese, né di nemici, fantasmi dentro di sé. Non poteva funzionare trentacinque anni fa, ma oggi forse è giunto il suo vero momento, paradossalmente. E a  pochi mesi dalla morte del suo Autore, l’arrivo nelle sale di questa versione da 216′ (approvata e revisionata da Cimino) rappresenta una coincidenza molto interessante, un motivo in più per non perdersene la visione. Non ci si faccia impaurire dalla durata, non vi è un momento di stanca, o superfluo, non vi è un secondo in cui avrete la tentazione di guardare il cellulare; anzi, c’è la sensazione che mancano tante cose, tante situazioni irrisolti, tanti “buchi”, del resto Cimino pare immaginasse una durata totale di sei ore, ma non ci importa, chi se ne frega, non è di una serie tv. Rimarrete perciò con gli occhi sbarrati a guardare quest’opera in cui c’è tutto il possibile, lo scibile umano si sarebbe detto, filmato con una fluidità, una libertà diremmo sconcertante se non avessimo già visto e vissuto tanto altro. Meno estremo, forse, del Cacciatore, meno compatto, ma più “definitivo”, più vicino a Peckinpah, dicevamo, nel descrivere la violenza, la morte, la disillusione, il dolore di invecchiare, e così via (sto pensando, in questi termini, a “La ballata di Cable Hogue” ma non è solo quello). Con un finale amaro, all’apparenza tirato via (e forse è proprio così, viste le ellissi di cui si è accennato poco sopra, ma dopo tre ore e mezza l’epilogo si risolve in pochi minuti e la cosa può spiazzare, ma rifiuto che lo si tacci di “retorico” come ho sentito dire da un tizio attempato fuori dal cinema) ma al contrario coerente con l’aria mortuaria, nichilista, da fine imminente e ineluttabile, che avvolge tutto il film. Se nel “Cacciatore”, o nel successivo “L’anno del dragone” potevamo scorgere, nella malinconia, un barlume di speranza nel futuro, di un sussulto, uno slancio nella vita pur nel dolore e nelle difficoltà, qui l’amore e la sua forza sono spariti, non possono esserci, la relazione amorosa è puro ripiego, ricerca ossessiva di un passato che non potrà tornare più e che si rimpiange costantemente.

Se Cimino non avesse girato più nulla lo avremmo forse definito costantemente funereo e consapevole, un’elegia finale; invece non è stato così, e sappiamo anche che erano tante le sceneggiature e i progetti che non ha potuto realizzare. Ed ecco che quindi torna il concetto di un film sì contemporaneo a oggi, ma ugualmente ben radicato nella sua epoca, nell’età di un cinema che stava perdendo la sua antica identità per crearne un’altra: la celebrazione dell’età perduta, quella del cinema della New Hollywood, quella del western, quella della libertà creativa, assoluta, quella del racconto per immagini.

Blackhat, o del fare il film più contemporaneo e allo stesso tempo più eighties dell’anno

E’ un momento splendente per un certo cinema americano, inteso come quello di matrice USA e hollywoodiano; si stanno rivivendo i fasti della new hollywood degli anni ’70, dove menti e regie innovative e coraggiose avevano rovesciato la tradizione stantia e portato milioni di incassi? Non proprio, dato che ci riferiamo qui a flop colossali e quasi preventivati, ma la notizia è già qui, cioè che alcuni produttori (sia indipendenti che mainstream) abbiano deciso, nel 2014 (e chissà nel 2015) di lanciarsi in progetti fallimentari dal punto di vista economico, ma entusiasmanti (non sempre, ma a volte) da quello artistico. Se abbiamo già parlato in precedenza di Inherent Vice e non certo in maniera positiva, veniamo (il plurale maiestatico puzza di professionalità, me ne scuso, anzi, ce ne scusiamo) dalla visione di Foxcatcher di Bennett Miller e di Blackhat di Michael Mann. Se il primo titolo è certamente più tradizionale, sia nella messa in scena austera che nel suo riferirsi a un’opera letteraria (Intermezzo: curioso che abbia vinto a Cannes vent’anni dopo Pulp Fiction, segno che in Costa Azzurra premino ancora gli americani, benché lo sguardo sia in questo caso molto più classico che rivoluzionario, segni dei tempi, forse; ma se Cannes avesse ancora voglia e l’idea di anticipare il vento cinematografico futuro, forse avrebbe dovuto premiare altro, se ci fosse; tuttavia, è ancora autre chose rispetto a una Venezia che snobba Birdman per il film di Roy Andersson, che è stato criticamente molto apprezzato, ma che ad esempio io ho detestato, forse perché il mio senso dell’umorismo è poco avvezzo a quello svedese, e comunque davvero non capisco chi ci ha infilato i Monty Python come riferimento, benché okay forse la sequenza con il Re e l’esercito, ma francamente…. Beh, non ho visto Birdman, non posso fare confronti) , per quanto ispirata a un fatto realmente accaduto e comunque piuttosto riadattato rispetto ad esso, il secondo è l’ennesimo grande film di Mann, anzi, qui ci troviamo di fronte, secondo chi scrive, al capolavoro del regista di Chicago. Un capolavoro di attualità, di contemporaneità totale (persino nelle date: il film si svolge nel marzo 2015, e tutto ciò che accade potrebbe svolgersi esattamente in quel momento, mentre noi spettatori siamo rinchiusi in sala, magari con una pietra al collo – ma durante la proiezione non le farete caso – ), che guarda alle infinite possibilità offerte dal digitale, dal web, e dal punto di vista tecnico da quello della cgi, uno dei protagonisti assoluti delle immagini più interessanti del film. Allo stesso tempo, Mann guarda alla sua gioventù, ai film d’azione, ai tempi d’oro del genere degli anni Ottanta, in cui la corporalità si associava alla dinamicità, in cui l’ingegnosità non si contrapponeva all’essere fighi, e non c’erano limiti, di pensiero, di azione, geografici.

Più che settantenne, Mann è da diversi anni il regista più contemporaneo degli USA, cioè quello che ha cominciato a girare in digitale in alta definizione prima di tutti (Collateral), che ha riproposto l’estetica dell’action degli 80’s (Miami Vice) prima dei vari Expendables & co. Avrei visto benissimo Mickey Rourke recitare al posto di Chris Hemsworth, e Michael Cimino dirigere quest’opera, fosse stata girata trent’anni fa. L’ho pensato negli ultimi quindici-venti minuti circa (non so quantificare precisamente la durata, il tempo non mi ha oppresso durante la visione, so solo che le due ore e venti sono scorse via che era un piacere), soprattutto durante alla sequenza d’azione finale, quella dello scontro corpo a corpo. Una scena corale che riporta il discorso a ciò a cui Mann puntava fin dall’inizio, l’esaltazione di un mondo più umano, fisico (nel senso di corpi, non di quantistico), in cui Hathaway/Hemsworth assume le fattezze di un McGyver 2.0, più cazzuto e violento, certo, ma ugualmente geniale dal punto di vista delle invenzioni e delle intuizioni. Un mondo dove, e Hathaway lo dice esplicitamente in uno dei pochi dialoghi interessanti e significativi, conta guardarsi negli occhi, contano i rapporti umani, le amicizie, gli amori, la classica e sana vendetta. E dove anche le armi utilizzate sono i cari e vecchi pugnali (e comunque, anche coi kalashnikov, è sempre corpo a corpo, magari senza protezioni particolari). I computer e dintorni, il web (che Mann mostra bene come si trattino di elementi anch’essi fisici, tangibili, dotati di un corpo), non sono cose da distruggere, alla Grillo dei vecchi tempi, anzi, bisogna sapere “semplicemente” come servirsene per arrivare all’obiettivo (alla Grillo dei tempi attuali), alla resa dei conti finale, a guardarsi finalmente in faccia, per risolverla da uomini.

A Hollywood, dunque, diversamente dagli anni ’70, si investe forse meno nella gioventù, non parliamo di registi di primo pelo qui, infatti (P. T. Anderson è considerato un giovane: figurarsi, uno che ha girato il primo lungometraggio nel 1996), bensì piuttosto di autori, registi con una visione personale, che sanno rischiare, anzi, vogliono rischiare, “fallire”, regalandoci perle sensazionali (non vada dimenticato che solo poco più di un anno fa usciva The Wolf of Wall Street, il cui straordinario successo di botteghino ha forse facilitato se non permesso questa nuova ondata produttiva così rischiosa e poco orientata al grande pubblico). Ma non tutti sono Scorsese, e per di più in questi film di sesso&pruderie ce n’è molto poco.

Conclusioni: Non ne abbiamo, ma finora è un anno cinematograficamente molto vivo e interessante, la domanda è: siamo solo all’inizio?

l’unico Quentin possibile

L’ultimo film di Paul Thomas Anderson, Inherent Vice, è stato ovviamente accolto dalla maggior parte della critica cinematografica più o meno giovanilistica come una delle più importanti uscite dell’anno, per qualcuno già degno della top 10 dell’anno, una delle cose più masturbatorie e tristi che esistano. Perché? Per qualcuno è esilarante, per altri è sexy, per taluni addirittura rivoluzionario per come destruttura il tempo, e via andare di scemenze. A modesto parere di chi scrive, in “Inherent Vice” ci sono 5-6 minuti di cinema, i restanti 142-143 non sono che modesto flatus vocis. Pronunciate in gran parte da un irritante Joaquin Phoenix in versione wannabe Dude/Jeff Bridges che parla, va in giro, fuma, un tiro di coca ogni tanto, ma soprattutto parla, parla, parla, all’infinito, senza pausa, senza sosta. E’ il cinema americano del 2015, del XXI secolo, dove non si può stare in silenzio per più di 2 minuti senza che qualcuno non recrimini e cominci a smanettare sullo smartphone. Io, al cinema, ho cominciato a farlo dopo un’ora e mezza, ma semplicemente per vedere la durata del film. Una volta accortomi che mancava ancora un’ora, ho cominciato a pensare di uscire prematuramente dalla sala. Cosa che mi è capitata solo un paio di volte in precedenza, una con il desolante Go Go Girls di Abel Ferrara (che fu follemente distribuito al cinema, anfatti ora -ahimé- lo spediscono direttamente su mymovies). Ma mi aspettavo il nulla fin dalla prima inquadratura, ancora prima dal trailer. Io penso che Anderson sarebbe un’ottimo regista di porno (non a caso poi il suo primo film Boogie Nights è ambientato in quel mondo) ma si ferma sempre troppo presto, a un paio di culi nudi a metà (tra cui quello di Belladonna, qui in borghese e recitante come Michelle Sinclair, vero nome dell’eroina del porno di qualche anno fa – pochi, ma sembrano secoli – ). Mi aspettavo ronfate di fronte a piani sequenza interminabili e stucchevoli. In realtà qui Anderson “sorprende”, puntando su primi piani e sequenze brevi, frastagliate, da serie tv. Ecco, ormai il cinema USA, anche quello che si vuole più autoriale, insegue l’estetica da serie televisiva, con sequenze dialogate che non durano più di tre minuti che si susseguono una dopo l’altra. E, comunque, anche come (mini)serie, Inherent Vice non avrebbe nessun senso di esistere. Forse Anderson ne è cosciente, e come ha scritto Pezzotta, si tratta di un suicidio commerciale e che potrebbe compromettere la carriera di questo regista, ma finché ci saranno critici e addetti ai lavori che lo considerano come uno dei maggiori registi americani della nuova generazione, qualche produttore pazzo gli affiderà ancora dei progetti. Chi si pone questo problema è Quentin Dupieux, uno per cui usare la parola genio non è uno spreco di caratteri (è una parola che uso con molta parsimonia, credetemi): pubblicitario (sua l’invenzione di quella campagna levi’s col pupazzo flat beat), dj, producer di musica elettronica col nome di Mr. Oizo, regista, Dupieux ha attraversato gli ultimi quindici anni circa nel mondo dei media senza mai prendersi troppo sul serio e con lo spirito di chi sente di fare sempre l’ultima cosa, non quella definitiva, ma l’ultima che gli permetteranno di fare, appunto l’ultima a cui qualche produttore folle deciderà di concedere fiducia. Ma Dupieux se ne sbatte giustamente, continuerà comunque a fare cose, a filmare, a inventare. Intanto godiamoci Réalité, ideale chiusura e summa di una prima (e chissà se ultima) parte di carriera cinematografica cominciata con Steak nel 2007. Girato in una più che mai metafisica California, Réalité è un continuo sberleffo allo spettatore e che Dupieux rivolge ugualmente a se stesso (emblematica la scena in cui la bambina butta nel cestino la VHS dopo averla guardata), un vortice surreale e in parte surrealista (chissà che non sia una citazione, probabilmente sì, comunque il momento esilarante in cui il produttore spara a un surfista mi ha ricordato il cecchino del Fascino discreto della borghesia) che alla fine non ha capo né coda (ma non è una critica negativa, anzi), succede tutto nella testa, nella nostra, in quella di Dupieux, l’unico Quentin a cui oggi possiamo dare fiducia al cinema (gli piacerebbe, ad Anderson, essere Tarantino, per non dire i fratelli Coen, o Altman, ma non c’entrano proprio un cazzo con Anderson, meglio Silvio Muccino, davvero), nella testa malata e folle di chi ha un’eczema all’interno, di chi guarda le cose al contrario di come le vedono gli altri, e non si preoccupa di dare un senso e una spiegazione a ogni fotogramma, che se ne sbatte dell’intellettualismo, che ama pigliare e pigliarsi per il culo. Da confrontare magari con Holy motors di Leos Carax per vedere quanto i critici italiani siano dei coglioni (in gran parte). Ovviamente Carax è uscito da noi, Réalité no, Carax è figo, Dupieux non se l’incula nessuno. Confidiamo che le cose cambino presto, e la rotta s’inverta, sarebbe un gran momento di svolta per il cinema e la nostra percezione della settima arte.

che minchia vuole il papa?

papa bergoglio torna a farsi vedere sulle prime pagine dei giornali, giusto per ribadire il suo ruolo di guida spirituale et politica del mondo cattolico, oggi più che mai messo alle strette dalle derive laiciste e fondamentaliste-islamiche dell’umanità (o meglio, di quella che interessa i media e i politici e l’economia occidentali). “Se m’insultano la mamma, io gli mollo un pugno”, “non figliate come i conigli” (credi che basti avere un figlio, per essere un uomo e non un coniglio?, cantava il cantante), “non si può deridere la fede”, ma anche (copyright veltroni) “uccidere in nome di dio? aberrazione”.

Intanto, una parentesi: la si può smettere di dire che il Corano vieta la raffigurazione di Maometto? Questa è una solenne cazzata: è vietata la riproduzione di Dio, è condannata invece l’apostasia, ovvero la negazione della propria religione, ovvero dell’islam. Perciò è qualcosa che vale solo per i musulmani, non per gli altri. E manco esiste esiste la blasfemia nell’Islam, così come il suddetto reato non esiste in Francia. Qui i dettagli: http://www.konbini.com/fr/tendances-2/topic_medias/charlie-hebdo/coran-representation-mahomet/ Chiusa parentesi.

Che vuole Bergoglio, dunque? Romperci i coglioni, fare la guida spirituale, ribadire il suo ruolo di capo supremo della Chiesa cattolica romana (giusto per ricordare anche, come sottolinea Houellebecq, che nell’Islam non esiste guida spirituale univoca e riconoscibile), ricordarci che non esiste solo l’Islam come religione soffocatrice delle libertà personali e private: ehi, ci siamo anche noi, i cristiani, i cattolici. Vi ricordate di noi? Una volta facevamo noi le guerre sante, ammazzavamo e perseguitavamo i diversi e gli infedeli in nome di dio, ora abbiamo smesso, ci siamo evoluti, certo, ma non possiamo, non vogliamo, smettere di cagarvi il cazzo. amen.

cronaca di una serata al cine (o il mio parere su “The smell of Us”

Porca puttana! Era un po’ che un film non mi incuteva le sue immagini nel sonno, nel dormiveglia, nel mio vagare sovrappensiero. Ohibò, era un po’ che non facevo riflessioni e non parlavo a gente di un film visto al cine, diobò, era un po’ che non avevo voglia di comprare una rivista solo per leggerne i numerosi approfondimenti e interviste attorno a un solo film. Il soggetto in questione è “The smell of us”, di Larry Clark. Soprattutto noto per “Kids”, uscito 20 anni giusti fa, ma anche, e soprattutto, fotografo e artista a tutto tondo, venerato in francia (ma rifiutato con disgusto a cannes con quest’ultima pellicola – punto a favore – e mostrato con vergogna e di nascosto a Venezia – altro punto a favore -) , quasi totalmente ignorato nella natia US e in italia, Clark ha più di 70 anni e mostra una libertà di filmare e di filmarsi davvero ammirevole, da cui qualsiasi regista o presunto/aspirante tale dovrebbe imparare, o per lo meno, apprendere, per capire cazzo vuol dire fare cinema, soprattutto nel 2015 a.d. Sono andato a vedere The smell of us non so esattamente perché, l’ultimo ricordo di Clark risaliva a Ken Park, visto al cine quando avevo circa diciott’anni in compagnia di un tizio e una tizia giusto perché era v.m. 18 e c’era un po’ di trasgressione e sesso, e mi fece parecchio cagare (in sala c’eravamo mi pare solo noi tre, dopo un po’ entrò un tizio che lavorava nel cinema come staccabiglietti per gustarsi le scene di sesso più esplicite); forse perché il biglietto costava 3,50, forse perché il trailer era accattivante, forse perché i cahiers du cinéma ne sono rimasti entusiasti (a dir poco). Fatto sta che mi sono presentato soletto e mi sono goduto l’ora e mezza scarsa di oscenità, squarci punk, squarci anali, squarci di 16ème arrondissement, stronzatine, immagini sgranate, pixellate, smartphonate, perfettamente fotografate, soggettive impossibili e immaginifiche (splendida la carrellata che segue uno skater in un parcheggio sotterraneo), tableaux Dixiani (ovvero alla Otto Dix, la cui oggettività mai è stata così ben rappresentata, benché qui forse involontariamente, al cinema), leccate di piedi da antologia, madri sbronze e arrapate, e altro che non ricordo o forse non voglio ricordare. Maurice Sachs sarebbe stato fiero di queste storiacce di marchette e droghelle, e sti gran cazzi se questi ragazzini non esistono, a Parigi o altrove, questa è arte, signori, questa è trasfigurazione della realtà in visione personale e privata, straordinariamente oscena perché senza pudore alcuno di mostrare la propria decadenza fisica, morale, nonché i frutti proibiti (che non significa necessariamente goduti o ambiti) della propria immaginazione (in questo assolutamente Clark associabile qui a Dix e Sachs, anche soprattutto nell’autobiografismo senza ritegno). Ultima menzione per Michael Pitt: quanto s’è invecchiato!, e complimenti a quel tizio italico che ha portato una tizia romana a vedere sto film al primo appuntamento: prossima volta portala a mangiare una pizza (o a vedere quella cacata da Internazionale – pensiero assolutamente preventivo e pregiudizievole – come voleva lei, l’ultimo di Fatih Akin), ch’è meglio!

Rire, bordel de dieu !

Non è facile per me parlare, o meglio, sproloquiare su Parigi e Charlie Hebdo e tutto ciò che ci sta intorno. Non è facile perché la cosa mi ha toccato profondamente, per varie ragioni. Una su tutte è che sono un lettore (benché non abituale) di Charlie, sono un profondo amante di quella cultura satirica umoristica francese che ha le sue radici in “Hara-Kiri, Journal bête et méchant” (stupido e cattivo) ed è confluito fino ai giorni nostri nel suddetto “Journal Irresponsable”. I titoli, le parole, sono importanti (Moretti docet). Come dice giustamente Houellebecq, “io mi sento sempre irresponsabile e lo rivendico, altrimenti non potrei continuare a scrivere. Il mio ruolo non è aiutare la coesione sociale. Non sono né strumentalizzabile, né responsabile” (http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_14/michel-houellebecq-niente-francia-sara-piu-come-prima-si-ho-paura-anch-io-b2efe122-9bb4-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml). Grande è la confusione sotto il cielo, c’è un sacco di gente che non distingue più la satira, la scrittura, l’invenzione, l’immaginazione dalla politica, dalla religione, dal quotidiano. C’è gente che non distingue una cazzata da una cosa seria… RIRE BORDEL DE DIEU, come scrisse Charb. Forse è troppo semplicistico dire ciò, ma questi assassini non ridevano, non scopavano, pensavano scientemente alla morte, alla loro e a quella altrui, hanno trovato un pretesto, lo hanno ben interiorizzato, hanno scelto l’obiettivo, hanno colpito. Mi fanno abbastanza pena quelli che invocano la libertà di espressione e magari un tempo andavano in giro a lanciare pietre e molotov e a giustificare chi sparava per strada in nome della lotta di classe o chissà quale altra cazzata. Mi fa ancora più pena chi si paragona alle vittime perché anch’essi vittime in passato di una sorta di censura o purga o come si vuole chiamarla.

Mi sorprendo a trovarmi d’accordo per due volte consecutive con Pigi Battista: prima condividendo il suo editoriale scritto a caldo il 7 gennaio, oggi quello su Dieudonné. E’ assolutamente ciò che penso anche io: se si parla di libertà di espressione, questa deve valere anche per chi dice cose che a una persona comune possono risultare insultanti o rivoltanti (per molti, è lo stesso effetto che provocano le vignette di Charlie). Lo stesso popolo francese che oggi si riunisce è lo stesso popolo che manifesta a favore del pluriomicida e terrorista Cesare Battisti, è lo stesso che applaude le battutacce antisemite di Dieudonné, è lo stesso popolo che disprezza Sarkò perché non francese ed ebreo, è lo stesso che rivendica i propri valori laici e repubblicani. Certo, un popolo non è un singolo, non farò certo lo stupido errore di generalizzare, mai come in questa storia ci sono tante sfaccettature, tante sfumature. Ma la nostra intenzione, sempre più forte e sempre più convinta, continua a essere la stessa: quella di non prendere nulla sul serio, quella di farci beffe di noi stessi e di tutti, quella di guardare le cose dal loro lato più sbilenco e più grottesco, quella di non farci fottere dal pensiero comune, pastoso e mellifluo; quella di continuare a pensare liberamente con la nostra testa, poiché questo abbiamo, l’immaginazione, la fantasia, il pensiero complesso e personale: è questo che ci distingue dagli altri esseri viventi, è questo che ci rende unici, cazzo!

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